La fine e l’inizio
di Wislawa Szymborska
Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
L’ordine, seppure approssimato,
certo non viene da solo.
C’è chi deve spingere le macerie
al bordo delle strade,
per far passare
i carri pieni di cadaveri.
C’è chi deve calarsi
nella melma e nella cenere
tra le molle dei divani letto,
tra le schegge di vetro,
e gli stracci insanguinati.
C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare un muro.
C’è chi rimetterà vetri alla finestra,
e monterà le porte sui cardini.
Fotogenico non è
e richiede anni e anni.
Tutte le telecamere
sono già fuori,
per un’altra guerra.
I ponti sono da riattivare,
e le stazioni da rifare.
Ridotte a brandelli le maniche
a forza di rimboccarle.
Uno, con la scopa in mano,
ancora ricorda com’era.
Uno che ascolta
annuisce col capo superstite sul collo.
Ma, in zona, cominceranno ad aggirarsi
quelli che ne saranno annoiati.
C’è chi andrà ancora
a disseppellire sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
per depositarli sul mucchio dei rifiuti.
Chi sapeva di che si trattava
deve far posto a chi
ne sa troppo poco.
O meno di poco.
Oppure assolutamente niente.
Tra l’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti
dev’esserci qualcuno disteso,
con una spiga tra i denti
perso a guardare le nuvole.
Mykolaïv e Kherson, Ucraina, agosto 2024
Sono passati oltre due anni dall’inizio dell’invasione russa. Non è del tutto vero quel che dice la poesia: si lavora, si mette in ordine e si ricostruisce molto anche a guerra in corso, anche con gli allarmi antiaerei, anche con i colpi di artiglieria di sottofondo, le pareti che tremano e i vetri che si spaccano nella notte, con le campagne che bruciano o ancora minate, con l’elettricità contingentata, con la propaganda di guerra e i cani randagi abbandonati da chi è fuggito dall’invasione. Si lavora anche quando la paura si respira come l’aria, che quasi non ci si fa più caso: la paura di ricevere la notizia di qualcunə al fronte uccisə o feritə, di essere obbligatɜ ad arruolarsi, di esser colpitɜ da un colpo nemico, di dover scappare, di non avere acqua potabile, di non sapere quanti aiuti arriveranno e fino a quando.
Non so cosa animi le persone che vivono qui, che costruiscono e ricostruiscono in tempo di guerra, cosa le tenga in vita: molti di loro lo chiamano Dio. Agli occhi di un ateo occidentale non c’è niente di poetico in queste scene e Dio pare non passare di qua da un bel po’. Ma istinto di sopravvivenza, orgoglio, rabbia e odio per il nemico invasore, amor proprio, voglia di rivalsa, senso di responsabilità fanno fare cose incredibili.
Una di queste piccole storie di ricostruzione passa dalla scuola N°47 di Mykolaïv. La maggior parte delle scuole qui non è attrezzata per la guerra, non può dar rifugio in caso di allarme, e per questo è semplicemente rimasta chiusa, con studentɜ a casa, quellɜ che non son scappatɜ con le loro famiglie. Questa scuola è tra le più fortunate: ha un rifugio antiaereo, che è stato sistemato per accogliere qualche classe e qualche gruppo alla volta. Pareti gialle, a sostituire un po’ la luce del sole che laggiù non può arrivare. Nel sotterraneo della scuola grazie ad aiuti arrivati anche dall’Italia è stato anche costruito un depuratore di acqua, che nei mesi passati è stato molto prezioso. I corridoi della scuola son presidiati da decine di piante verdi e fiorite che attendono come se niente fosse la fine di questa umana follia e il ritorno degli studenti. Una delle aule del sotterraneo è stata allestita con una lavagna multimediale e un proiettore, banchi e sedie, e sono appese bandierine degli stati d’Europa, quasi come fosse una festa di compleanno.
Questa storia di ricostruzione passa da qui, da un paio di incontri in caldi pomeriggi d’estate e ha protagonistɜ che meritano di esser descrittɜ. Ci sono una quindicina di adolescenti ucrainɜ, che di adolescenza ne han vissuta ben poca, sconvolta dalla pandemia e dalla guerra. Sono quellɜ che non sono andatɜ via per l’estate, la maggior parte. Alcunɜ di loro erano scappatɜ con le famiglie ma sono tornatɜ. Parlano con gentilezza un timido inglese, ci scrutano e comunicano tra loro con gli occhi soprattutto. Non sanno che al mondo non c’è sguardo più impegnativo di quello dellɜ adolescenti, o sembrano non farcelo pesare. Già, perché come lɜ bambini sono innocenti, vittime di una guerra che non han deciso loro ma che si combatte sulla loro pelle e sul loro futuro; ma al contrario dellɜ bambinɜ, stanno iniziando a comprender davvero cosa succede, non si posson più aggrappare a favole consolatorie. I loro occhi cercan disperatamente verità e vie di uscita, e se le aspettano anche da noi. Lɜ insegnanti con loro son un paio qui ora, ma altrɜ son coinvolti nell’iniziativa: promuovono attività europeiste a scuola. Hanno formato questo gruppo di ragazzɜ, lɜ hanno convintɜ a conoscerci, ad andare a scuola al pomeriggi per le videochiamate con “gli italiani” durante gli scorsi mesi, costrettɜ a prepararci delle domande sull’Italia – la più ricorrente: “perché non mangiate la pizza con il cappuccino?” e altre molto più specifiche su come funziona il sistema educativo.
Dietro le quinte c’è Maksim, un consigliere comunale di Mykolaiv, che ha poco più di trent’anni, è fondatore dell’associazione Youth of Ukraine, che da anni qui in città lotta contro corruzione ed evasione fiscale, e promuove la partecipazione dei giovani alla vita democratica. Si è dedicato anima e corpo alla città dallo scoppio della guerra, per intercettare e distribuire fondi e aiuti umanitari, ma oggi riesce nonostante la situazione a dedicarsi ad attività educative e culturali: cinema in piazza, campi estivi per ragazzi e ragazze, piste ciclabili, come fossimo in una qualsiasi città d’Europa, e non in un paese in guerra. Tuttɜ lɜ suɜ amicɜ sono via, chi è scappato, chi è al fronte e chi dal fronte non tornerà, ma lui è rimasto, e da qualche mese è papà di una bimba. Resiste nonostante il timore quotidiano che gli si chieda di unirsi all’esercito: nessuno ha la certezza di riuscire a scampare. I militari fermano per la strada tutti gli uomini in età di leva, ne arruolano centinaia al giorno solo nella regione di Mykolaiv. Ogni volta che torniamo però corre il rischio e viene a prenderci in stazione, e ci riporta quando dobbiamo ripartire, sempre con un sorriso e un regalo.
Poi ci siamo noi, alcunɜ italianɜ arrivatɜ o ritornatɜ qui, grazie ad Operazione Colomba, corpo nonviolento di pace, e ad Acmos. Dallo scoppio della guerra in tantɜ ci siam datɜ il cambio per preservare una presenza e un contatto costante, tra Mykolaiv e Kherson, anche ora che i riflettori si sono un po’ abbassati. Siam qui per dimostrare che in Europa non ci siam dimenticatɜ tuttɜ di loro e che pensiamo che la loro vita valga quanto la nostra. Dopo gli ultimi confronti abbiamo proposto di invitarlɜ da noi a Torino (solo donne e minori, gli uomini non possono lasciare il paese, son carne da guerra). Vorremmo permetter loro di ricordare cosa vuol dire vivere in pace e che è un loro diritto, far loro conoscere dellɜ coetaneɜ italianɜ, dar la possibilità di esprimersi, raccontarsi, confrontarsi. Ricordarsi che esiste altro oltre alla paura e all’odio cui costringe la guerra.
Giochiamo a un gioco simile a lupus in fabula – qui lo chiamano mafia!- che hanno riadattato in versione europeista. Ci si salva se si risponde correttamente a domande su altri paesi europei, in sostanza ci si salva solo se si conosce l’Europa. L’Euroclub della scuola è sgargiante e molto schierato e con una naturalezza che stupisce promuove un’educazione europeista a scuola. Ha una piccola e colorata sede in una delle aule e tanti gadget di cui son molto fierɜ. Distribuiscono bandiere, con due facce diverse dagli stessi colori, il giallo e il blu. Stanno bene insieme: il blu con le stelle da un lato, l’infinito orizzonte tipico della campagna ucraina, giallo dei campi e blu del cielo, lineare.
Inevitabile il confronto: perché noi non siamo così esplicitamente europeisti? E pensar che abbiamo scelto coscientemente da oltre settant’anni di esser europei prima ancora che italiani. Il benessere forse ci permette prudenza e alibi per non esserlo, mentre qui la questione è urgente: se non è Europa è morte.
Fa strano stupirsi qui: proprio su queste terre ucraine, allora sovietiche, son morti buona parte dei 90000 italiani caduti o dispersi nella tragica campagna di Russia, mandati coscientemente a morire da Mussolini nel 1941-42. Anche dopo quella vicenda abbiamo deciso di non voler più guerre né fascismi, in sostanza di costruire l’Unione Europea.
Dovrebbero tornare qui oggi lɜ cittadinɜ italianɜ e europeɜ, il mondo della scuola e della politica soprattutto: ragazzɜ, insegnanti, dirigenti, fin su alle istituzioni! Che lezione di educazione civica, questa resistenza della scuola di Mykolaiv. Dovrebbero venire qui tuttɜ quellɜ che sputano nel piatto europeo in cui mangiano, a destra e a sinistra, e anche quellɜ che non hanno alcuna intenzione di rinunciare a un po’ del loro piatto per far seder qualcun altro a tavola.
Ma abbiamo tenuto per noi tutti questi pensieri. Abbiamo raccontato del bello dell’Europa, della storia di mediazione e di pace di cui siamo orgogliosɜ, dei benefici che viviamo senza esserceli meritati. Che sappiamo che ci sono ancora molti problemi, ma non possiamo lamentarci.
Eppure in cuor nostro lo sappiamo che l’Europa sognata a Ventotene, l’Europa della Carta di Nizza, perde colpi e autorevolezza, al proprio interno, ma soprattutto ai suoi confini e a livello internazionale. Il diritto continuamente calpestato e la libertà solo per lamentarsi e consumare. Chissà, forse in questo incontro con una scuola ucraina, che resiste in tempo di guerra, è nascosta una pista da seguire, di rinascita. Come è nascosta nelle speranze di chi fugge verso di noi in cerca di pace, di chi chiede da mesi “cessate il fuoco”. Forse la sopravvivenza è negli occhi di questɜ giovanɜ di Mykolaïv che si aspettano qualcosa da noi. Forse ci ricorderemo che per sopravvivere e reagire alla storia non è mai bastata la sola ragione, neanche nel 1945: serve ridurre a brandelli le maniche a forza di rimboccarle, riconoscer la poesia nelle macerie, serve qualcuno che si aspetta qualcosa da te, e se non proprio un dio servirà almeno ritrovare una fede comune a dare un po’ di coraggio.
Ramona Boglino